Pubblicato da: G.F. | 23 gennaio 2008

Il diaframma…


…è probabilmente il componente più importante della fotocamera: contribuisce al contrasto generale della foto, permette di regolare la nitidezza dell’immagine, che cosa mettere a fuoco e cosa no, insomma, è una potenza.

All’inizio il diaframma non c’era (non c’era nemmeno l’otturatore, ma di questo parleremo un’altra volta): gli obiettivi erano fondamantalmente un tubo con qualche lente cacciata dentro e l’esposizione si regolava scientificamente togliendo e rimettendo un tappo sul davanti.Finalmente, nel 1858 John Waterhouse, concepì il primo diaframma: la sua invenzione consisteva in una lamina con un foro che veniva inserita nell’obiettivo, la dimensione del buco regolava la quantità di luce che poteva passare.All’inizio del ‘900 venne infine inventato il diaframma che conosciamo oggi. Il moderno diaframma è composto da un numero di lamelle, in genere almeno sei, che si chiudono creando un buco, di dimensione regolabile, allo scatto della fotografia.Il numero delle lamelle è importante per la resa dello sfuocato nell’immagine: maggiore è il numero, più rotonda è l’apertura e di conseguenza più morbida è la sfuocatura (gli appassionati di sfuocatura “artistica” chiamano questo fenomeno bokeh, che vuol dire sfocatura in giapponese, ma è molto più figo).

L’apertura del diaframma si misura in stop o f-stop, la scala che si trova tipicamente sugli obiettivi è questa:

1 1,4 2 2,8 4 5,6 8 11 16 22

Supponendo di avere un obiettivo di apertura massima di f.1 (magari! ;-)).Ad ogni passo della scala la luce che passa per l’obiettivo viene dimezzata, quindi passando da 2 a 2,8 avremo metà della luce che arriva sul sensore o sulla pellicola; questo ovviamente influisce sul tempo di esposizione, infatti, per fare arrivare la stessa quantità di luce sulla pellicola sia la stessa, bisogna raddoppiare il tempo di esposizione.Ma la cosa più interessante è questa: l’apertura del diaframma influisce in modo significativo sulla profondità di campo, che è quello spazio (in profondità, appunto), di fronte a noi, che apparirà a fuoco nella fotografia.La regola è questa: più si chiude il diaframma, maggiore sarà la profondità di campo, al contrario, ovviamente, più si apre e minore sarà la “profondità” che apparirà a fuoco nell’immagine.Ma come possiamo renderci conto di quale sarà la zona a fuoco nella nostra foto?Quando guardiamo nel mirino della nostra macchina reflex, noi vediamo attraverso all’obiettivo che abbiamo montato, impostato automaticamente alla massima apertura, dato che il diaframma viene chiuso al valore desiderato solo al momento dello scatto; tuttavia esiste un bottoncino, ogni marca ha la sua posizione particolare, che serve a chiudere il diaframma senza scattare la foto: in questo modo si ha una visione immediata della zona a fuoco.

Un altro metodo è quello di guardare sulla parte superiore dell’obiettivo: in genere c’è incisa una scala, simmetrica, che riporta i valori dei diaframmi principali. Mettendo a fuoco, il riferimento indica la distanza a cui è posto il “fuoco”.

Ghiera - 2
Nella foto, la ghiera di messa a fuoco impostata sull’infinito.A destra e a sinistra del triangolino, la scala dei diaframmi.

La scala dei diaframmi serve ad indicare da dove inizia a dove finisce la zona della profondità di campo, a seconda del diaframma. Nella foto, vediamo che, a f.16, la zona a fuoco inizia a 5 metri e termina oltre l’inifinito.

diaframma-003.jpg
Profondità di campo a f.16

Che cosa possiamo osservare in questa foto? Metà della nostra zona “a fuoco” è oltre l’infinito, il che, oltre ad essere una bella espressione poetica, per noi è un grosso spreco di spazio utile!

Quindi, dato che siamo dei furbacchioni, noi spostiamo il nostro infinito in corrispondenza del punto più lontano da noi nella zona a fuoco (che sappiamo essere indicato dal 16 a destra).

Ghiera - 1
L’obiettivo focheggiato sulla distanza iperfocale

Ed ecco che, come d’incanto, la profondità di campo si è estesa di 2,5 metri, il che non è male!Questo ci permette di lavorare in assoluta velocità, non dovendo preoccuparci di mettere a fuoco nulla che sia più lontano di 2,5 metri da noi, tanto è sicuramente a posto; si imposta il tempo di conseguenza e ci si preoccupa solo di inquadrare!Naturalmente nessuno ci impedisce di tarare il nostro obiettivo in ragione della distanza che ci interessa, in modo per esempio da avere a fuoco da 1 a 10 metri e così via.Questo metodo è detto della distanza iperfocale ed è stato usato da tutti i grandi fotografi per avere la certezza di una corretta messa a fuoco senza la preoccupazione di perdere l’attimo (che per definizione è sempre fuggente).
Ora, tutto ciò è bello ed istruttivo, tuttavia sempre più spesso gli obiettivi hanno solo una misera finestrella che indica la distanza, e quindi tutto questo lavoro di fino è impossibile, ma nulla ci impedisce di crearci un taccuino con indicati i vari rapporti diaframma/profondità di campo e di fregare così gli ingegneri dagli occhi a mandorla che ci vogliono tutti un po’ cretini ed incapaci di ragionare…

Ciao e buone foto!


Risposte

  1. complimenti per la spiegazione!
    E’ da un pezzo che cerco di chiarirmi il rapporto diaframma/profondità e finora non ci ero riuscito!

  2. Grazie!
    Sono contento che sia stato utile 🙂

  3. A me è successo di dover porre in corrispondenza dell’infinito il primo diaframma più aperto di quello impostato, perché l’intervallo di p. di c. era segnato più grande di quello reale a causa della maggiore incisione dell’ottica e dalla migliore capacità di risoluzione della pellicola.
    È una mia paranoia, o è corretto?
    grazie dell’attenzione

  4. La profondità di campo non dipende nè dalla risoluzione della pellicola, nè dalla nitidezza dell’ottica.
    Dipende esclusivamente da:
    1. Lunghezza focale dell’obiettivo.
    2. Apertura del diaframma.
    3. Distanza del soggetto.

    Ma questo intervallo di profondità dove era segnato?

    Ciao!

  5. La pdc no, ma il circolo di confusione sì.
    L’ intervallo è segnato sul summicron 35.
    grazie, ciao


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